domenica 30 luglio 2017

Il nostro bisogno di consolazione


 Nessuno sa quando cala l’oscurità, e la vita non è un problema che possa essere risolto dividendo la luce per la tenebra e i giorni per le notti, è invece un viaggio pieno di imprevisti tra luoghi inesistenti.

Stig Dagerman.
Un nome imponente che fa tremare le mani davanti alla tastiera e impallidire davanti alle sue pagine.
Uno di quegli uomini che hanno sentito bruciare sulla propria pelle i terribili anni tra il '45 e il '50. Terribili non per iperbole, signori miei.
Parliamo di massificazione, con conseguente perdita della propria individualità; di esistenza racchiusa in un percorso ben delineato, rigoroso; di standardizzazione di qualsivoglia aspetto della propria vita; di oppressione di pensieri non consoni; di risposte facili a domande sempre più rare; di insoddisfazione cronica della propria esistenza; di rabbia repressa sputata su capri espiatori, odio, disprezzo per la distinzione e, dulcis in fundo, burattinai davanti ai quali si china la testa silenziosamente. 

Forse Dagerman è più attuale di quanto si creda, no? 

Il nostro bisogno di consolazione è il testamento di un anarchico in perenne rivolta contro lo status sociale a cui l'intera umanità deve adeguarsi, il testamento spirituale di un uomo che, oppresso dalle aspettative e dal suo stesso talento, si suiciderà nel 1954. 

Schiavo della propria sensibilità, ossessionato dallo scorrere del tempo, aspira al desiderio umano più basilare, ma quanto mai difficile da esaudire: la felicità accompagnata dalla libertà. 

Eppure egli scrive, mostrando una consapevolezza disarmante e facendo trapelare quel male di vivere comune a molti scrittori, primo fra tutti Eugenio Montale: 
 [...] di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l'uomo non può essere soddisfatto[...]. Io mi rifiuto di scegliere tra l'orgia e l'ascesi, anche se il prezzo dev'essere un tormento continuo. [...] ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l'espiazione.  
Per Dagerman il rigore etico e la necessità di opporsi ad un mondo che non gli appartiene prevalgono su qualsiasi altra volontà, a tal punto che egli preferisce coltivare la propria infelicità, issando la sua angoscia come baluardo di salute morale.

Quel camminare sentendo la spaventosa sfida dell'eternità, e la certezza che il tempo non è altro che una consolazione perchè niente di umano può essere perenne si fondono alimentando paradossalmente un inno all'individualità e alla bellezza della vita:
 Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perchè tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita. Ma tutto quello che mi accade di importante tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso [...] si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io inconti la bellezza per un secondo o per cent'anni è del tutto indifferente.
Uno dei tantissimi motivi per cui Dagerman dovrebbe avere uno spazio tutto suo in ogni libreria, uno spazio nella testa di ogni essere vivente, è proprio questo: lui ti trafigge freddamente, ti fa del male, ma un attimo dopo ti ricorda che puoi costruire la tua libertà, nonostante questa sia probabilmente solo un miraggio.
Dagerman ti dice che la vita umana non è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete. 
Dagerman ti urla non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere il diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un'unità che agisce autonomamente.

Dagerman ti cambia i connotati.

Ti cambia la vita.

E tu vorresti potergli stringere la mano, ma non puoi.
Allora decidi di urlargli al cielo io dannazione ti ho capito, lascio sogni immutabili e relazioni instabili. 

con rispetto e ammirazione,
Claudia

venerdì 26 maggio 2017

Quando vincono i libri, ovvero il #SalTo30


Per tutti quelli che ma tanto il Salone di Torino è morto, a Milano facciamo meglio, la nostra fiera gliela piazziamo giusto giusto qualche settimana prima, cambiamo aria.

E invece... no.

Un po' di spavento ce lo siamo presi tutti, non neghiamolo.
Anche solo la vaga idea che il Salone Internazionale del Libro potesse scappare dal Lingotto, rapito, portato via - ma poi portato dove? - o peggio, sostituito, trasferito, boicottato - una cospirazione degli Sforza forse? - ci duoleva il cuore, un po' per orgoglio Savoia, lo si ammette, ma soprattutto perchè insomma la tradizione è tradizione ed il SalTo è Torino.
Il lettore almeno una volta nella vita giunge in via Nizza e, come un pellegrino a La Mecca, cerca la Ka'ba.
Qua si ride, ma su certe cose non si scherza proprio, ragazzi.

Forse ci si è sentiti anche un po' traditi quando il punto focale di tutto questo non sembrava essere la lettura come mezzo di confronto, tanto più una questione economico-politica; sì, lo sappiamo tutti che non viviamo nel mondo delle favole, ma un po' di amaro in bocca rimane sempre, soprattutto quando si è spettatori di sgambetti organizzativi e litigi tra mocciosi della serie io qui non ci rimango, senza di me siete persi, ci vediamo a Milano. 

Che poi, diciamocelo, non è questione di tifoseria Milano - Torino, Torino - Milano, non servono capi ultras e tantomeno cori da stadio (anche se un chi non salta un bauscia milanese è mi pare di averlo sentito da qualche parte) per sperare che degli eventi culturali di questo calibro riescano a coesistere senza intralciarsi.
Coesistere, che bellissimo vocabolo.

Insomma, questa edizione sembrava un terno al lotto e qui si aspettava il diciotto maggio come fosse Natale.
Arriva Tempo di libri e sembra tutto molto bello; c'è chi fa la ola, chi un applauso, chi una piroetta (chi sta a casa a studiare e si addormenta sui libri).
Esce il programma del Salone ed è subito scetticismo; ma che si fa? Si va? Lagioia ci piace, non ci piace?  
Arriva il diciotto, c'è chi aspetta il diciannove come la sottoscritta, e niente... poi si entra.

Qual è  il bel finale di tutto questo fantastico teatrino lo sappiamo un po' tutti, complici anche i numerosissimi bilanci ed articoli di giornale che stanno girando in questi giorni.
Ciò che realmente conta, alla fin della fiera, non è di certo la rivalità tra due città che si punzecchieranno sempre, tantomeno stipulare un vincitore.
Meglio il Salone? Meglio Tempo di Libri?
Meglio i libri, quelli che uniscono.
 
Quest'anno le mie borse si sono riempite non solo di storie da leggere, ma anche della passione di chi ha creduto in quelle pagine, di chi le ha scritte, perchè la cultura è condivisione e leggere non è un'attività solitaria, non significa estraniarsi, anzi, leggere è interazione.

Leggere non ci rende persone migliori, ma più semplicemente ci arricchisce. E' forse per il senso di pienezza che ne deriva che passeggiando circondati da libri e da persone che amano i libri un sorriso tra lettori raramente manca.
Questo è il mio Salone, ogni anno, indipendentemente dalle coordinate geografiche, e spero non cambi mai.

Quest'anno è stata una toccata e fuga, ma il mio pass stampa verrà conservato come una reliquia insieme ai tesori scovati tra gli stand; partendo dalla Black and Coffee con il suo aperitivo delle 18 - che per timidezza non ho osato toccare - continuando con Edizioni Clichy, il suo calorosissimo staff e l'edizione integrale in formato giornale di Una stanza tutta per sè; autori che vogliono parlarti dei loro libri e ti placcano in mezzo alla folla; sacchetti che pesano come macigni, ma che sono alleggeriti dai numerosissimi sconti delle case editrici che vogliono promuoversi ed avvicinarsi al lettore. Ed infine: bibliotecari e librai, torinesi e non, in una vera e propria foresta di carta ed inchiostro pronti a elargire consigli e raccontarsi.

Certe cose non cambiano, ragà, e se proprio devono farlo, mal che vada diventano più belle.

Claudia


lunedì 10 aprile 2017

Mal di pietre e sorrisi liquidi




Scorrevole, piacevole, delicato.
Oserei dire poetico, ma parlo di quella poesia semplice, limpida e senza pretese.
Solo centodiciassette pagine di dolcezza e sorrisi, sorrisi liquidi. 
Mal di pietre di Milena Agus è un concentrato di emozioni ovattate, che si sciolgono pagina dopo pagina, talvolta impercettibilmente, accompagnate dalle note di Chopin, Bach e Debussy.
Mi piacerebbe definirlo un romanzo onomatopeico.
Il suono è infatti il filo portante della narrazione, unisce e divide, talvolta accompagna, ma la sua presenza è una costante. Abbiamo il mare che bagna le coste della Sardegna, il pianoforte, il flauto, Milano ed infine "[...] l'amore che si fa con il rumore dei gabbiani.".

Mal di pietre è un racconto nostalgico, che parla d'amore con la stessa freschezza e semplicità dei bambini, i quali custodiscono il dolore con un'ingenuità commovente. 

  "[...] Tutti erano convinti che un uomo di 50 anni non guarderebbe mai una coetanea, però questi erano ragionamenti validi per le cose del mondo. L'amore no. L'amore non bada nè all'età nè a nient'altro che non sia l'amore. [...] Se lui glielo avesse chiesto, lei non sarebbe tornata a casa mai più. Perchè l'amore è più importante di tutte le altre cose. [...]"

Nell'epicentro del romanzo troviamo una donna, il suo matrimonio e il suo amore extraconiugale con il Reduce, incontrato in un luogo termale, dove entrambi curano su mali de is perdas, letteralmente il mal di pietre, ovvero i calcoli renali.
Un male che si tramuta in mal di amore, e che ci viene narrato dalla voce della nipote tramite pianti, sorrisi e stupore. 

Mal di pietre, pietre preziose come "[...] Il cielo a pezzetti fra i rami spogli degli alberi."
Preziose come questo romanzo che non è altro che un microcosmo femminile, costellato da donne estremamente diverse tra loro, scritto da una penna aggraziata dal tratto leggero.

"[...]Lei non era matta, era una creatura fatta in un momento in cui Dio semplicemente non aveva voglia delle solite donne in serie e gli era venuta la vena poetica e l'aveva creata."
Ho scovato questo gioiello in uno scaffale nascosto ed impolverato di un mercatino dell'usato, ad occhi chiusi. Sono contenta di averlo sistemato in borsetta e di avergli lasciato arricchire il mio piccolo universo di lettrice.


Claudia 

La colonna sonora della mia lettura: 
Ludovico Einaudi, Night
De Andrè, Bocca di rosa